venerdì 21 febbraio 2014

Per intima persuasione

Conversazione con il Maresciallo Novembre

Novembre (a sinistra) durante
l'incontro con il Consiglio Centrale di
Rappresentanza della Guardia di Finanza

 

E’ uno di quei vecchi palazzi di Milano, austero ma non trionfale, di quelli con i portoni come l’entrata di una chiesa e le scale grandi in ferro battuto. Silvio Novembre abita al piano rialzato; seguo il dito del portinaio che mi indica dove devo andare, ed entro. Stringo la mano ad un omone dalla faccia larga e i capelli bianchi, ci sediamo e iniziamo la conversazione. Silvio Novembre è quasi un pezzo di Storia: senza le indagini, sue e di Giorgio Ambrosoli, ben poco si saprebbe della storia del nostro paese, forse nemmeno della P2, o di Mani Pulite. E Ambrosoli le pagherà, queste indagini, nel ’79, con la morte. Sicario: un certo Aricò. Mandante: Michele Sindona, banchiere prima tra i più importanti ed elogiati, poi (nel ’74) al centro di un gravissimo crack finanziario, in seguito al quale Ambrosoli e Novembre scopriranno che tale Sindona aveva costruito illegalmente il suo impero economico grazie ad appoggi e amicizie altolocate, dalla Democrazia Cristiana a politici vicini a Nixon, fino addirittura al Vaticano. E’ grazie a uomini come Ambrosoli e Novembre che oggi sappiamo qualcosa in più sulla corruzione, sulle sue dinamiche e sui sistemi economici e politici che ne permettono la proliferazione. Anche se, purtroppo, i Sindona esistono ancora. Doveva essere l’occasione per uscire dal nostro piccolo paese, parlare di qualcosa di diverso. Invece, rileggendo, ci si rende conto esiste, sotto traccia, un filo che porta alla nostra vita di tutti i giorni. Anche quando si parla di problemi lontani, Novembre li riconduce sempre al quotidiano, come se fossero discorsi di casa. Con la sua riservatezza cordiale, parla di tutto, in modo dolce, pacato, da nonno saggio. Sono parole fatte col pane duro delle massaie, impastate con la saggezza dei contadini. Sono parole che abbiamo tutti nel cuore, ma serve sempre qualcuno che ogni tanto ci passi uno straccio, e tolga un po’ di polvere, un po’ di dimenticanza che si è depositata lì nel tempo. 

 


Signor Novembre, lei ha preso parte ad una delle operazioni più complicate e determinanti per la comprensione dell’economia e della corruzione nel nostro paese negli anni settanta: quella che doveva essere una procedura di liquidazione, tra l’altro abbastanza trascurato dai giornali, è diventata un’indagine nel cuore pulsante della finanza italiana. Quando vi siete resi conto dell’enormità della situazione?


Quasi subito. Non subito, ma quasi subito. Devi tener conto che gli ispettori della Banca d’Italia ci avevano fornito un canovaccio di partenza. Non provato, ma comunque avevamo una via dove ficcare il cacciavite, insomma, anche se eravamo tutti neofiti: sia il commissario liquidatore, Ambrosoli, sia la sua segreteria, sia noi, roba del genere non se n’era mai vista. E allora ci siamo messi a studiare; poi abbiamo fatto tutta una serie di perquisizioni in casa di direttori, ammistratori, sindaci, eccetera, ed è saltato fuori un mare di documentazioni, e informazioni importanti; e fin da subito abbiamo appurato che i collegamenti tra le banche di Sindona e i partiti politici erano caldi, croccanti. Si incomincva a capire che c’era qualche problema: quattrini che venivano da banche pressoché sconosciute, come mai? E così via via abbiamo trovato le carte nascoste e siamo arrivati al cuore di tutto il marchingegno, che era la Fasco, una società del Lussemburgo; ma c’è voluto un sacco di tempo per arrivarci.



L'impero di Sindona era un sistema di scatole cinesi, una catena di società di comodo di cui non si riusciva a trovare l'anello iniziale. Le è mai capitato di credere che non sareste mai riusciti a sciogliere il rompicapo?



No, ci siamo arrivati pian piano, e anche grazie ad un errore della controparte: ad un certo punto è arrivato un fax in cui si diceva che quattromila azioni della Fasco erano a Ginevra, in attesa della società che dovevamo liqudare, la Banca Privata Italiana. Così abbiamo potuto sviscerare tutto l'organismo: infatti, avendo in mano le azioni e chiedendo le informazioni per conto della Fasco alle banche straniere siamo riusciti ad ottenere informazioni che come liquidatori della Banca Privata non avremmo ottenuto. E abbiamo capito che il nodo cruciale era proprio la Fasco, e così siamo riusciti anche a risalire alle responsabilità personali. Solo che poi, il diavolo ci ha messo la coda: a molti, anche a quelli che comandavano, queste cose non piacevano: perché c’era dentro la mafia, i servizi segreti, italiani e stranieri. E poi c’erano Sindona e i suoi accoliti; e c’era chi comandava ancora, perché il Presidente del Consiglio era Andreotti, cioè quello che aveva detto che Sindona era il salvatore della Lira. Dunque, Sindona ricattava quelli che secondo lui dovevano aiutarlo a venir fuori dalla situazione, e quelli erano nei guai, e hanno tentato di salvarlo, e c'è stato tutto quel pasticcio che poi è stata la causa della morte di Ambrosoli; ma noi da febbraio del 1975, una volta depositato il lavoro di liquidazione, sapevamo di avere a che fare con un affaire molto grosso, che andava dal 1969 in avanti.



Sindona faceva una specie di gioco delle tre carte: autofinanziava segretamente le sue società grazie ad altre sue società. Ma poi i soldi erano sempre quelli, e in qualche modo i conti dovevano tornare, e il gioco avrebbe dovuto avere vita breve. Invece....



Eh, ma non c’era solo Sindona: perché poi c’è stato Calvi, c’è stato il Banco Ambrosiano... il meccanismo è sempre quello: c’è ancora. Finché poi tutto il castello crolla: le bolle, le famose bolle finanziarie, la crisi di oggi, da cosa sono dovute? Proprio da questo sistema infernale.



Quindi i Sindona, oggi, ci sono ancora.



Hai voglia. Sono le grandi banche, con la differenza che Sindona d’allora è fallito, mentre i Sindona di oggi non possono fallire. Perché se falliscono, così come è successo negli Stati Uniti, succede quello che sta succedendo. Fallita una, basta, non ne falliscono più. La storia è tutta lì: uno dà i soldi a quello lì, quello lì poi non li restituisce, e allora deve fare gli utili per far vedere agli azionisti che è in grado di restituirli, e allora si mettono in piedi altri marchingegni, e così via; si nascondono le perdite... è sempre la stessa cosa. Oggi i mezzi sono più sofisticati, ma il meccanismo è sempre quello.



E la politica avrebbe la forza di impedire questo?



La politica dovrebbe sì, ad una condizione: che non si venda. Torniamo un’altra volta alla corruzione: uno arriva lì, è come se avesse dei diritti già acquisiti. Che poi non c’è solo la mazzetta: quella è la corruzione più banale, più ovvia. Ci sono metodi di corruzione più sofisticati.



Per esempio, tu hai bisogno di un posto di lavoro...



Esatto, ti metto a dirigere qualcosa, e poi... E’ il principio della mafia: io senza che tu mi chieda niente ti faccio un favore. Però poi quando il favore lo chiedo io, pure tu devi ricambiare. Io mi ricordo sempre che c’era un mio amico, avevamo fatto la scuola sottufficiali assieme, un ragazzo stupendo. Lo mandano in Sicilia, nel siracusano, un paese di quelli proprio... Lui arriva lì, e una mattina uno arriva da lui e dice: “Signor Tenente, sappiamo che lei è sposato, e ha bisogno di un appartamento. Le abbiamo allestito un appartamento, fatto nuovo, arredato...”. E lui si chiedeva “Mo’ come mi comporto?” Ci sto o no? Allora il maresciallo maggiore, uno di quelli che aveva resistito lì per tutta la vita, gli ha insegnato a dire ni, non sì, non no, insomma. E poi il prima possibile, filare via. Ma ha rischiato la vita, gli hanno messo le bombe davanti a casa, fin che poi lo hanno dovuto portar via. E non aveva mica detto un no secco. Dunque, tornando al discorso di prima, chi fa le leggi dovrebbe essere il primo ad osservarle. In fondo ad ogni legge c’è scritto: si manda a chi deve osservare e la faccia osservare. Proprio nell’ultimo rigo, di qualunque disposizione. E questa è una norma direi elementare, insomma.



Il problema è sempre vedere il come: sono i partiti, le istituzioni, che dovrebbero auto-regolarsi, e siamo di nuovo daccapo.



E’ difficile chiedere al tacchino di fare il pranzo di Natale. Però succede così. Deve succedere così, non c’è altro verso. Se no cosa facciamo, facciamo venire i marziani a farci delle leggi per noi? Certo che no, è evidente.



Secondo lei, bisogna demandare tutto alla buona volontà di chi fa la legge, bisogna fidarsi, oppure bisogna creare un documento per fare in modo che il legislatore osservi la legge?



Certo, c'è la Costituzione, ad esempio, che non è altro che la regola delle regole. Io torno sempre a quel libriccino, perché lì c'è dentro tutto; e pensa che gran parte ancora deve essere attuata. Ad esempio la regolamentazione dei partiti, ancora non c'è. Sono riconosciuti dalla costituzione, come intermediario tra il popolo e l’eletto. Poi però non c'è una legge che ne determini la vita, la democrazia interna, per cui questi fanno un po’ quello che vogliono. Ma si dovrebbe arrivarci, no? E poi abbiamo un altra soluzione, a nostra disposizione: ed è quello di allargarci, di allargare l’Europa, ad esempio. Abbiamo già un organo superiore sovranazionale, e dovremmo allargarlo di più, secondo me.



Secondo me, stiamo vivendo in una situazione piuttosto medievale: oggi gran parte della nostra vita dipende dalla finanza, dalla politica, dall'economia, però una persona normale conosce veramente poco di tutto questo. Proprio come il contadino medievale dipendeva da svariati re e regnanti e poteva essere defraudato in ogni modo. E questa situazione come può essere ovviata, se non con il fatto semplice di spiegare, di fare informazione?



Non bisogna sottovalutare questo, anzi. Alla base di tutto c’è la scuola, perché più uno conosce, e meglio sa decidere. Certo, gli antichi romani dicevano “tienili ignoranti che li governi meglio”. Un tempo era la regola, ma non è che se ne siano dimenticati, diciamo. E invece bisogna uscire dall’ignoranza: bisogna sapere, sapere, e continuare a sapere, a studiare, essere curiosi, a non accontentarsi, ad andare avanti. Non c’è altro mezzo. Adesso poi ci sono dei mezzi di conoscenza enormi, non siamo più ai tempi dei contadini, per cui c’è la possibilità materiale di sapere. Bisogna solo averne voglia. La scuola è indispensabile: conoscere è potere. E quindi il programma che riguarda le scuole, l’istruzione, è importante. E’ la cosa che deve determinare il fatto che io ti voti o non ti voti, a seconda di cosa mi proponi di fare sulla scuola. E’ un metodo che io giudico indispensabile. Ma è vero quello che stavi dicendo. Perché spesso quelli che sono titolari di diritti, non lo sanno, e non li chiedono! Non chiedono l’osservanza dei propri diritti. Gli studenti, che molto spesso fanno confusione in piazza, non lo sanno esattamente quali sono i loro diritti, quali sono stati calpestati. E invece sarebbe opportuno che lo sapessero un poco di più. O molto di più.



Quali sono i diritti che gli studenti non sanno, ad esempio?



Il diritto ad avere un insegnamento migliore, ad esempio.



Intende dire che il dibattito si è incentrato sulle strutture, sui banchi, sulla carta igienica... insomma sul contenitore invece che sul contenuto?



L’aspetto fondamentale per imparare, è quello di avere degli insegnanti bravi, in gamba, che sappiano trasmettere il sapere; e questo di solito è un aspetto trascurato. Bisogna andare alla radice dei problemi. Non parliamo poi della tutela del diritto allo studio che deve essere uguale per tutti: è vero sulla carta, in realtà costa caro, e lo sappiamo tutti. Ci vorrebbe un sistema di approccio all’istruzione che non sia basato solo sul fatto di pagare la retta. Perché altrimenti, si rischia che ci siano tanti ragazzi che rimangano tagliati fuori. E ancora non ci siamo, pur essendo una nazione cosiddetta civile. Ecco, queste cose dovrebbero chiedere, senza fare tanto casino. E’ un gatto che si morde la coda: più confusione si genera, più la reprimenda aumenta. Non è vero che chi grida più forte ha ragione. Le cose si ottengono invece in altro modo: senso dello Stato, senso civico, osservando delle norme. Non sono proclami teorici: sono cose concrete.



Lei ha vissuto, ha rischiato la vita, per lo Stato. Ma cos’è lo Stato?



Siamo noi. Siamo noi. Ognuno di noi è un pezzo di Stato. Se poi uno è stato chiamato ad operare nel nome dello Stato, ha maggiore responsabilità ancora. Lei pensi che gente come me, come i militari, giurano. Si giura fedeltà allo Stato, al suo Capo, alle Leggi, si giura. Ora, il giuramento è l’atto che impegna moralmente più di ogni altra cosa. Dunque, uno che ha giurato, ci rimette la pelle ma osserva il giuramento. Perché se si comporta diversamente, non va bene, è una vergogna.



E tanti direbbero: “Ma perché giurare?” (faccio l’avvocato del diavolo, s’intende...)



Devi giurare per dire agli altri che tu sei lì per servirli. Il giuramento, alla fine, serve a questo. E’ importante, perché poi ognuno deve fare il proprio dovere, ma lo deve fare indipendentemente, come si dice: “senza timore di pena o speranza di ricompensa”. Perché va fatto per intima persuasione, e non ci sono vie di mezzo.



E questa di solito si chiama etica, giusto?



Parlare di etica è molto ampio, da filosofi, ma questo si può dire: sembra che dal vivere di tutti i giorni, alle grandi scelte, ai momenti davvero supremi, ci sia una distanza enorme. Ma invece non è mica così. E’ tutti i giorni che l’etica ha la sua ragion d’essere. E’ soprattutto la sera, quando uno si lava i denti prima di andare a dormire, che ci si guarda allo specchio e (normalmente almeno) si fa un po’ il diario della giornata: dove sono stato, chi ho visto, è successo questo, quello... cosa ha fatto e così via. E se la somma è soddisfacente, va bene; se qualcuno invece.... così così, dirà: “vedrò domani di comportarmi meglio”. Mio padre una cosa sola mi diceva sempre: “Fa’ del bene, e scordatene; fa’ del male e ricordatene per sempre”. Detti contadini; noi siamo di provenienza emiliana, io sono di Piacenza (molti dicono che non è Emilia, ma invece lo è) e... la saggezza dei contadini emiliani è quella: poche storie, ma arriviamo al dunque, parlare poco, ma parole come sassi, messi lì uno sull’altro, pietre salde. E mio padre era un ferroviere e ci ha educati tutti così. Però ci hanno indicato quale era la via principale, e di lì non si scappa. Io ho preso una sberla da mio padre che ero già vicebrigadiere della Guardia di Finanza e comandavo quaranta uomini. Per dire che l’autorità è importante; ma l’autorità che abbia autorevolezza, quella che non si dà per legge, ma si conquista. E comporta una responsabilità: responsabilità che va assunta. Non si può, come spesso accade da noi, che non è mai colpa di nessuno. Occorre individuare esattamente il responsabile, il quale ne dovrà rispondere. Ma non capita mai. Male!



Ho notato che un’altra delle parole tipiche di quest’epoca è “impunità”. Cioè, tutto è scusabile, tutto è imputabile a responsabilità altrui; sono sempre altri enti, altre persone che hanno la colpa. Si ha la sensazione che, comunque vada, alla fine non bisogna pagare, non è necessario.



Si ha la sensazione che, comunque vada, sarà un successo. E non è così. Non è vero che comunque vada sarà un successo. Male! Io sono convinto personalmente, magari sbaglio, ma io sono convinto che se tutti gli italiani facessero il loro dovere, piccolo, non ci sarebbe la delinquenza organizzata, la mafia, la corruzione. Ci sarebbe la metà dei guai che ci sono ora. Perché alla base del nostro stare poco bene, per così dire, c’è sicuramente la corruzione. Perché a noi capita sempre di essere egoisti. I soldi, il danaro, l’avere... i soldi sono un’ossessione. E sembra di poter comprare tutto. Ma non è così. La dignità, non si compra, ad esempio. Io quando vedo i politici, molti, i quali vanno in giro con dieci uomini di scorta. Ma siamo pazzi? E’ una scelta. E se li vogliono far fuori, li fanno fuori. Quanti magistrati, quanti poliziotti, quanti imprenditori sono stati fatti fuori! Solo per aver aperto un negozio! Non sono dieci uomini di scorta che fanno la differenza. E’ la volontà delle persone. Anche Nino di Matteo, sta lì, continua il suo lavoro, non se ne va. E poi, nemmeno Mussolini c’è riuscito, mandando il prefetto Mori: la mafia c’era e c’è rimasta. Perché la mafia non la si combatte come se fosse una guerra, solo da un punto di vista militare. E’ sbagliatissimo! Quando si va a cercare un po’ più in profondità, quando hanno incominciato a cercare i soldi, i conti bancari, le proprietà, allora sì che ne hanno messi dentro parecchio.



Il suo è stato un lavoro sfibrante, difficilissimo; ma, leggendo, ho notato che ci vuole un ingrediente un po’ particolare per muoversi fra i conti bancari: la fantasia. Pensavo che fosse un lavoro, se si può dire, molto triste, insomma, molto grigio, e invece...



No, no, è entusiasmante! Non triste, entusiasmante! E la fantasia, certo! La fantasia non guasta mai. Io ricorderò sempre la prima volta che sono andato in Lussemburgo, a svolgere un accertamento di carattere penale in sede internazionale. E c’era il Granduca, e ci ha invitati a pranzo, perché stavano sbrigando una rogatoria che aveva 1 — I di protocollo: era la prima. Era la prima perché lì non c’era andato mai nessuno! Non ci si poteva andare. Ma come non si può andare, ci sarà un sistema. Gira che ti rigira, abbiamo trovato il sistema. E ci siamo andati. Sono stato da guardia di finanza nelle banche svizzere! Mai successo prima e mai successo dopo, insomma. E per fare certe cose, un po’ di fantasia, anzi, molta fantasia, ci vuole. E bisogna mettere sul piatto tutte le doti che uno ha. E così, almeno, alla sera, davanti allo specchio, uno dice: è andata bene.

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